Giugno 4, 2025
Nella nostra cultura ci sono affermazioni considerate quasi assiomi:
• che la cucina italiana sia la migliore al mondo,
• che il mare della Sardegna superi anche quello delle Fiji,
• che l’arte e il patrimonio storico italiano siano ineguagliabili al mondo.
E che un “buon imprenditore” sia colui che, con coraggio, ottimismo e dedizione totale, si spende in prima persona per il bene dell’azienda.
Ma è davvero così? E soprattutto: a quale costo?
Nel panorama economico italiano, le PMI sono da sempre considerate il motore dello sviluppo. A cavallo tra anni ’80 e ’90, la loro diffusione venne letta come un segnale positivo: un esempio virtuoso di sviluppo dal basso, fortemente legato al territorio, alle relazioni umane e al capitale sociale.
Questa visione ha dato origine a una figura imprenditoriale profondamente radicata nel contesto culturale: una persona capace di intraprendere, di costruire attraverso il lavoro, le relazioni personali, e – spesso – anche con una buona dose di adattamento e resilienza.
Come evidenzia anche il saggio L’imprenditore e il suo altro (Loperfido, 2022), questa cultura ha plasmato l’identità dell’imprenditore soprattutto nella cosiddetta "Terza Italia". Qui l’impresa familiare diventa centro gravitazionale della vita e la figura dell’imprenditore si modella sull’ideale dell’autonomia assoluta: fare da sé, reggere tutto, competere e non mollare mai.
Questa mentalità, che in passato ha portato ricchezza e sviluppo, può oggi creare un carico emotivo e psicologico difficilmente sostenibile, soprattutto quando il confine tra vita privata e lavorativa si dissolve.
Nel contesto delle PMI familiari, le relazioni personali diventano un asset fondamentale. Ma quando tutto ruota intorno a reti familiari e amicali, i conflitti naturali del lavoro non trovano spazi autonomi di gestione, e rischiano di spostarsi nella sfera privata.
Questo meccanismo può diventare critico, soprattutto nei momenti di crisi economica. L’imprenditore si sente solo, e in caso di difficoltà ha l’impressione di deludere non solo sé stesso, ma anche la famiglia, i dipendenti, la comunità.
Il caso del Veneto, che tra il 2013 e il 2015 ha registrato il più alto tasso nazionale di suicidi per motivi economici, dimostra quanto profonde possano essere le conseguenze di un modello di successo non più sostenibile.
Ma anziché negarlo o giudicarlo, occorre leggerlo nella sua complessità: ha funzionato in un certo contesto storico, ha dato molto, ma oggi è chiamato a evolversi.
Le nuove generazioni guardano al lavoro in modo diverso: sempre più spesso cercano un’identità che non coincida esclusivamente con la professione. “Questo è quello che faccio, non quello che sono” sintetizza un cambiamento culturale che ci invita a rivedere il concetto stesso di realizzazione.
Il punto non è abbandonare il modello dell’imprenditore dedicato e capace, ma affiancargli nuovi paradigmi in cui sia lecito chiedere aiuto, delegare, prendersi cura di sé.
Un’economia sostenibile ha bisogno anche di imprenditori sostenibili, e di una cultura che sappia riconoscere il valore del limite, del supporto reciproco, della collaborazione.
A cura del Team Marketing